giovedì 24 giugno 2010

La guerra del Giappone contro Moby Dick


In Marocco si discute sul bando alla caccia alla balene.Ma il Paese asiatico sfida la comunità internazionale e continua a uccidere cetacei. Ecco perché dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - Nell'ora dell'intervallo, ogni giorno nelle scuole di Ayukawa si ripete un rito feroce. Tutti gli studenti nel cestino della colazione trovano la razione quotidiana di carne di balena. Cruda, in stile sashimi, o fritta come tempura, con salsa di soya o ketchup. Mangiarla non è un obbligo dietetico, è un gesto di patriottismo. Addentando i bocconcini teneri, grassi e nutrienti, quei ragazzi sono al centro di uno scontro di civiltà. È la guerra a oltranza del Giappone contro la messa al bando internazionale della caccia alle balene. Uno scontro che per i giapponesi ha un significato unico, incomprensibile per il resto del mondo: l'ultimo simbolo della loro diversità, la resistenza contro l'omologazione.

Una nazione ricca, civile, con alti livelli d'istruzione, spesso all'avanguardia nella tutela dell'ambiente. Cosa spinge il Giappone a sfidare l'opinione pubblica mondiale, America in testa, per continuare la caccia alle balene? "È nei nostri geni, è un pezzo della nostra cultura". Così risponde da anni l'ultraottantenne Shigehiko Azumi, ex sindaco di Ayukawa, il porto storico delle baleniere giapponesi. Tanti la pensano come lui, una netta maggioranza di giapponesi, senza distinzione di età. Anche quelli che non hanno mai assaggiato un sashimi di balena come quello che servono nell'unico hotel per turisti di Ayukawa.

Questo spiega la battaglia solitaria con cui il governo di Tokyo continua a difendere la caccia alle balene. "Esclusivamente per ragioni di ricerca scientifica", spiega il portavoce del ministero degli Esteri Jiro Okuyama. Questa è la foglia di fico, la fragile finzione a cui si aggrappa la diplomazia nipponica nelle conferenze internazionali 1. Dietro c'è qualcosa di più profondo. È il senso di un'identità perduta, triturata da un secolo di emulazione dell'Occidente.

Per uno scherzo beffardo della storia, il Sol Levante si aggrappa disperatamente a un simbolo che non è suo. Sui manuali di storia a Tokyo non v'è traccia di questa impostura e perfino tra i giapponesi più colti solo pochi osano alzare il velo sulla grande menzogna. Ma la verità è questa: la loro manìa per la carne di balena fu imposta dal generale Douglas MacArthur, il vincitore della guerra del Pacifico, comandante capo delle forze di occupazione americane alla fine della seconda guerra mondiale.

È il paese di "Moby Dick" e del capitano Achab, quello che oggi guida la crociata in difesa dei cetacei, che fu all'origine di questa grottesca finzione. L'equivoco affonda le sue radici nella complicata storia di amoreodio fra i giapponesi e l'Occidente, dall'arrivo della cannoniera del commodoro Perry nel 1852 fino ai nostri giorni. Ayukawa, sulla punta di una penisola nel Giappone nordorientale, è sonnolenta e depressa da molti anni. Quasi una cittàfantasma, costretta a vivere di ricordi.

Sono lontani i tempi in cui la capitale asiatica della caccia alle balene brulicava di attività, era la gemella-rivale asiatica di Nantucket, il porto del New England descritto nel romanzo di Herman Melville. Le navi della "caccia maledetta" continuano a salpare da Ayukawa e la cattura di una sola balena vale 100.000 dollari sul mercato del pesce di Tsukiji a Tokyo. Ma i consumi della carne pregiata sono diminuiti anche sul mercato interno, sono appena un ventesimo rispetto al record storico di 226.000 tonnellate toccato nel 1962. La campagna internazionale per proteggere i grandi mammiferi marini dal 1986 in poi ha spinto Ayukawa verso un lento e penoso declino.

All'avanguardia nella difesa della specie minacciata dall'estinzione, ci sono proprio gli ambientalisti americani. Le loro gesta hanno una risonanza mondiale. "The Cove", il documentario sulla caccia ai delfini in Giappone, è stato premiato con l'Oscar (e subito messo al bando dai cinema giapponesi per le minacce dell'estrema destra). Gli stessi autori del film, guidati dal regista Louie Psihoyos, sono stati i protagonisti di una "coda" spettacolare tre mesi fa. A pochi chilometri da Hollywood, sulla spiaggia californiana di Santa Monica, hanno scoperto un sushi-bar giapponese, The Hump, che serviva carne di balena sfidando il divieto federale. Smascherato dalla troupe con webcam e microfoni, il proprietario ha dovuto chiudere, ora rischia 200.000 dollari di multa e fino a un anno di carcere. Una piccola Pearl Harbor a rovescia, con gli ambientalisti californiani nella parte dei vendicatori. La West Coast degli Stati Uniti è la punta avanzata dell'offensiva contro i "barbari" che vogliono lo sterminio delle balenottere.

Eppure 150 anni fa è proprio l'America il centro mondiale della caccia alle balene. Philip Hoare, biologo e storico, ne ha fatto il centro della sua ricerca monumentale: "The Whale, in Search of the Giants of the Sea". Nel Settecento e nella prima metà dell'Ottocento, ricorda Hoare, "la caccia alle balene e lo sfruttamento industriale delle loro risorse, sono l'equivalente di quello che oggi è il business del petrolio". Prima che l'industria estrattiva faccia dei progressi verso la trivellazione, terrestre e marina, il carburante più usato per le lampade a olio è il grasso dei cetacei. Per Andrew Delbianco, docente alla Columbia University, "è irresistibile l'analogia fra la spietata caccia all'olio delle balene ai tempi di Melville, e l'avidità di petrolio nel XXI secolo".

L'America è l'Arabia Saudita dell'epopea delle baleniere. All'apice del boom, gli Stati Uniti esportano in Europa fino a un milione di galloni all'anno di olio di cetacei. La competizione è così sfrenata da sacrificare la sicurezza. La fine del capitano Achab in "Moby Dick" è ispirata da una vicenda vera, il naufragio della baleniera Essex nel 1820, colpita e affondata da un gigantesco mammifero nel Pacifico meridionale. Il traffico di balene spiega la stessa missione del commodoro Matthew Perry, che al comando della Flotta Nera piega l'isolazionismo giapponese e costringe lo shogunato di Tokugawa ad aprirsi al commercio con l'America. La priorità di Perry è assicurare alle baleniere Usa il libero accesso alle acque del Pacifico orientale e meridionale. In seguito i pescatori giapponesi, ad

Ayukawa e in altri porti, adottano le tecniche americane per la pesca dei cetacei. Ma il consumo locale della carne resta limitato. È solo dopo la seconda guerra mondiale che le cose cambiano. Dopo la resa incondizionata dell'imperatore Hirohito nel 1945, il Giappone distrutto dai bombardamenti (incluse due atomiche) è a corto di ogni risorsa naturale. Raccolti agricoli e allevamenti sono allo stremo. È il generale MacArthur a imporre in tutte le scuole la carne di balena come alimento quotidiano: proteine a buon mercato, le uniche accessibili in quegli anni.

"All'inizio - ricorda lo scienziato ambientale Shuichi Kitoh dell'università di Tokyo - molti giapponesi la trovavano immangiabile". E allora nel paese distrutto dalla guerra il governo fa quello che solo in una civiltà confuciana può sembrare possibile. Paternalismo autoritario e propaganda riescono a "convincere la popolazione che la carne di balena è parte delle nostre tradizioni, un pezzo di cultura nazionale", dice Kitoh. All'inizio degli anni Settanta, quando in Occidente ha inizio la campagna per proteggere le balene, la difesa dell'identità nazionale fa scattare la reazione. Ayako Okubo, ricercatore oceaonografico, non ha dubbi su quel che agita il subconscio dei suoi connazionali, e li rende così refrattari alle pressioni: "Ai giapponesi non piace particolarmente la carne di balena. Ma piace ancora meno sentirsi vietare il consumo dagli stranieri. È uno dei pochi terreni su cui abbiamo la capacità di dire no all'America".

(24 giugno 2010) © Riproduzione riservata

Nessun commento: