lunedì 31 gennaio 2011

Il mio essere è l'invisibile

Piove là fuori, sul vasto mondo, con un rumore così denso è impossibile che, a questa stessa ora, non stia piovendo sulla terra intera, il globo si muove con mormorio di acque per lo spazio, come sibilante trottola, E lo scuro rumore della pioggia è costante nel mio pensiero, il mio essere è l’invisibile, curva tracciata dal suono del vento, che soffia insolente, cavallo senza freno e in libertà, con zoccoli invisibili che battono attraverso queste porte e finestre, mentre dentro questa stanza, dove appena oscillano, lievemente, i paralumi, un uomo circondato da mobili alti e scuri scrive una lettera, componendo e adattando il suo racconto affinché l’assurdo riesca a parer logico, l’incoerenza linearità perfetta, la debolezza forza, l’umiliazione dignità, i timore ardimento, che tanto vale ciò che siamo stati quanto ciò che desidereremmo essere stati, ah, se ne avessimo avuto il coraggio quando siamo stati chiamati al rendiconto, il saperlo è già metà del cammino, basta che ce ne ricordiamo e non ci vengano meno le forze quando bisognerà percorrere l’altra metà. Esitò molto Ricardo Reis sul vocativo che doveva usare, una lettera, in fondo, è un atto temibilissimo, la formula scritta non ammette mezzi termini, distanza o prossimità affettiva tendono a una determinazione radicale che, in un caso e nell’altro, accentuerà il carattere, cerimonioso o complice, del rapporto che tale lettera stabilirà e che finisce per essere sempre, in una certa decisiva maniera, un tipo di rapporto parallelo al rapporto reale, non coincidenti. Ci sono equivoci sentimentali che sono cominciati proprio così.

José Saramago, L'anno della morte di Ricardo Reis

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