mercoledì 13 gennaio 2010

Quinnipak

Me l'ha insegnata Tool questa cosa. Andare a Quinnipak, dormire a Quinnipak, fuggire a Quinnipak. Ogni tanto gli chiedevo "Dove sei stato, che tutti ti cercavano?". E lui diceva "Ho fatto un salto a Quinnipak". É una specie di gioco. Serve quando hai lo schifo addosso, che proprio non c'è verso di togliertelo.
Allora ti rannicchi da qualche parte, chiudi gli occhi, e inizi ad inventarti delle storie. Quel che ti viene. Ma lo devi fare bene. Con tutti i particolari. E quello che la gente dice, e i colori, e i suoni. Tutto. E lo schifo a poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto per un po' l'hai fregato.

Ma non era facile venir fuori da quel merdaio lì. La miseria ti stava addosso, non ti perdeva di vista un attimo. Eravamo praticamente cresciuti insieme, io e Tool, in quello schifo di quartiere meraviglioso. Quando eravamo piccoli abitavamo uno di fianco all'altro. Ci eravamo costruiti un lungo tubo di carta, e la sera ci sporgevamo dalla finestra e ci parlavamo dentro: ci raccontavamo i segreti. Quando non ne avevamo, ce li inventavamo. Era il nostro mondo, insomma. Da sempre.

Tool l'ho rivisto un po' di volte. Non era più lui. Stava tutto il tempo zitto, e mi guardava. Mi fissava come ipnotizzato. Aveva degli occhi bellissimi, Tool. Ma mi spaventava a guardarmi così. Lo cercavo, ogni tanto, a Quinnipak, ma nemmeno là lo trovavo più. Era finita. Era proprio finita. Così è successo che ho deciso di andarmene. Chissà dove l'ho presa la forza per farlo. Ma un giorno ho riempito una valigia e me sono andata.

Alessandro Baricco, Castelli di Rabbia

1 commento:

Anonimo ha detto...

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